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Si chiamarono con gli unici nomi che conoscevano


di Sara Robabeh Djelveh
1° classificato

Sayyid è nato a Rasht negli anni ‘50, poco dopo il colpo di stato che avrebbe dovuto mantenere ogni cosa al suo posto, ma abbastanza prima del sequestro che cambiava tutto. Primogenito in un sistema di privilegi, è cresciuto protetto da un cognome antico e ha dovuto poi con gli anni trascinare il fardello del proprio nome. Nato capotribù, signore, discendente del Profeta. E ritrovatosi immigrato, extracomunitario, poveraccio.

Sara è nata a Roma negli anni ‘80, poco dopo il crollo che avrebbe dovuto sgretolare ogni muro, ma abbastanza prima di altri crolli che svelavano nuove barricate ed inspessivano quelle già esistenti. Primogenita in un Mondo di privilegiati, è cresciuta dominando il regno immaginario del cortile di casa e si è trovata poi a combattere per ritagliarsi una piccola porzione di realtà.

Nata principessa senza un regno e scopertasi, col tempo, proletaria senza figli.

Signore e signora per onomastica. Primogeniti per biologia. Sayyid bambino e Sara bambina hanno poche cose in comune, forse solo la testardaggine. Il tempo avrebbe accresciuto queste differenze, ma forse si trattava solo di opposte risposte occasionali alle stesse domande eterne.

Sayyid e Sara non si sono mai scontrati durante le manifestazioni di piazza, ma se l’avessero fatto si sarebbero stupiti di indossare la stessa kefiah. Dismessa la kefiah e indossati gli occhiali, entrambi ormai miopi per via di
un orizzonte troppo lontano, Sara e Sayyid inseguono la linea.

Trattenendo le lacrime, ché gli uomini non piangono, Sayyid abbandona quello che rimane di un impero antico, quella terra che è sua, gli appartiene e gli scorre nel sangue, gli attraversa lo sguardo, gli trafigge il cuore. Saluta il padre, bacia la madre. Sale su quell’aereo con il sospetto che la sua vita sarebbe cambiata per sempre, ma senza sapere che avrebbe abbandonato tutto quello che fino ad allora era stato. Arriva in Europa come tappa intermedia verso il sogno americano, ma durante la sosta il sogno si dissolve: si ritrova ostaggio nella crisi degli ostaggi, il denaro nelle sue tasche è vuoto, il paese della sua infanzia si trasferisce su un altro universo.

Nella variopinta Londra degli anni ‘70 è uno straniero tra gli stranieri, l’ennesimo suddito che cerca fortuna nel centro del regno. Cercava fortuna e invece trova lei. Lei che lo guarda con occhi antichi che poco hanno a che vedere con quella città tanto moderna. Lontano da ogni affetto, Sayyid s’innamora dell’iraniana nascosta dietro il passaporto italiano: natura da mercante, non da nomade, decide di seguirla. Sale su quell’aereo con il sospetto che la sua vita sia all’ennesimo bivio, ancora una volta ignorando che non sarebbe mai più tornato indietro.

Arriva in un paese nuovo e diversi sono i colori e le voci, le usanze ed i modi di fare. Monocromatica e conservatrice sotto un cielo azzurro che Londra non avrebbe mai visto. Un sole caldo che fa ribollire il sangue, le rovine dell’impero che è stato, la storia di un popolo che ha assoggettato solo per poi essere conquistato. Passeggia per le vie di Roma con la bocca aperta, incerto su dove rivolgere lo sguardo. Cammina per le vie della cittadina di provincia che sarebbe diventata la sua casa tra l’incredulità degli occhi dei passanti, brava gente che ignora che al di là della sfericità del Mondo esistano davvero altri popoli, persone, donne e uomini.

Diverso tra gli uguali, forestiero tra i paesani, extracomunitario tra gli indigeni. Eppure Pomezia, ignara, odora molto più di Persia che di Commonwealth. Le mani di Sayyid, un tempo levigate, prendono la forma degli unici lavori che gli vengono offerti. I calli gli induriscono la presa, la solitudine il cuore.

E mentre il Tigri straripa travolgendo il Golfo Persico tra le lacrime, a migliaia di chilometri di distanza, nei pressi di un altro fiume che di storie ne ha viste tante e di storia anche, un pianto diverso si appresta a ricucire gli argini.
Il resto del Mondo, colmo di avvenimenti molto più importanti di quelli che cambiano la vita di un uomo, avrebbe ignorato quel fiocco rosa, ma per un giorno è Sayyid a dimenticare il Mondo.

Lei nacque senza troppa fretta, posticipando per quanto poteva l’inizio di una vita che l’avrebbe vista sempre in ritardo. Sayyid le lacrime non le tratteneva più, perché l’uomo sa piangere, e in quel corpicino pieno
di grinze e privo di ogni pudore conobbe e riconobbe quegli occhi, forse ciechi, ma di certo non ancora miopi. La chiamarono con l’unico nome che conoscevano. Accompagna la sua bambina a casa e non ha più bisogno di un passato.
I giorni si sarebbero dovuti fermare in quell’istante, ma il tempo, instancabile, non conosce clemenza né sosta. Altre lacrime avrebbero attraversato i continenti, nuovi pianti avrebbero illuminato la vita dell’uomo.

Di nuovo accompagna la sua bambina, ma stavolta si lasciano la porta alle spalle. Saluta quello che rimane della creatura che ha visto nascere, quell’esistenza che è sua, gli appartiene e gli scorre nel sangue, gli attraversa lo sguardo, gli trafigge il cuore. La guarda incamminarsi verso quell’aereo con il sospetto di aver già vissuto infinite volte questo momento. Trattenendo le lacrime, ché né quell’uomo né quella donna vogliono piangere, padre e figlia si salutano come coetanei che hanno condiviso epoche diverse.

Si chiamarono con gli unici nomi che conoscevano.
Non dimenticarti mai chi sei, Sara.
Ti voglio bene, papà.

 

Sara Robabeh Djelveh è nata a Roma nel 1984, figlia di Oliva e Mohammad Reza. Ha trascorso l'infanzia e l'adolescenza a Pomezia assieme al fratello Dariush e alla sorella Chiara. Si è laureata nel 2007 alla facoltà di Scienze Politiche dell'Università' di Roma Tre, per poi specializzarsi in Economia dell’Ambiente, dello Sviluppo e del Territorio nel 2010. Ha viaggiato molto, cantato, ballato e recitato. Letto, parlato, pensato. Domandato, risposto, insegnato e imparato. Ogni tanto ha fatto la cosa giusta, altre quella sbagliata, ma difficilmente è stata ferma.

 

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