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Senza radici

di Ashai Lombardo Arop

Sono alla mia quarta rinascita, e non è male in una stessa vita.
Qualche tempo fa, dopo un'audizione andata a buon fine, mi sono sentita dire che ero decisamente quello che
cercavano, tranne che per un dettaglio: il mio italiano era troppo perfetto.
Ecco un altro punto di svolta. Quindici anni fa arrancavo a fatica contro il vento di una
società, che mi accettava con un ghigno maldestro, solo dopo aver sentito il mio italiano
perfetto. “Come sei brava”, mi dicevano “e come hai fatto ad imparare così bene la nostra lingua?”
All'epoca ero adolescente, con la schiettezza cruda e nuda, tipica di un'adolescente,
dunque non mi veniva da rispondere “la vostra lingua è anche la mia signora... signore”, no!...
Io semplicemente gli davo fuoco con lo sguardo e per me
rimanevano cenere appiccicata come colla ai miei vestiti.
Però era vero, che ero fortunata; perché i meno fortunati, quelli senza boccoli,
come molle o fusilli lungo le spalle, con cui si poteva intrattenere il passante curioso;
o con la pelle davvero nera, come l'ebano e non marroncina come la mia, che dava un impatto
decisamente meno traumatico e soprattutto, senza quell'orribile accento da gorilla, beh...mi volevano bene.
E l'italiano era la mia materia preferita a scuola e andavo da dio!
Chissà se per passione o scelta inconscia di sopravvivenza.
Comunque, l'italiano era l'unica lingua che conoscevo.
Nel 1990 non mi sfiorava minimamente l'idea che nel 2010 sarei potuta essere una specie
di moda. Adesso, così come si parla di dialetti e tradizioni, si parla di meticci e seconde
generazioni. Sono un caso! Da studiare a scuola. E me lo avessero detto vent'anni fa,
la mia vita sarebbe stata molto più facile, più fluida, motivata da una specie di sogno di gloria.
E invece venti, quindici, ma anche dieci anni fa, dovevo dimostrare che l'italiano era
la mia lingua ed era perfetta. Ora, se voglio lavorare, devo imparare ad avere un accento
africano, o di qualche lingua coloniale, uno qualsiasi, tanto non c'è differenza perché,
nonostante la superficie del Sud Sudan, il paese di mio padre, sia il doppio di quella
dell'Italia, e quella del continente africano, tre volte quella dell'Europa, per la gente qui,
l'Africa non è grande più di un ghetto di periferia.
Quindi, alla svolta della mia quarta esistenza, ennesimo periodo iniziatico in cui rimettere
tutto in discussione e tentare di recuperare, dalla biancheria sporca, un'identità ormai
sdrucita, sbiadita e rattoppata decine di volte, mi ritrovo al punto di partenza.
La partenza dopotutto era stata gloriosa! Degna di una rivoluzione! Mia madre l'ha fatta la
rivoluzione! Inconsapevole e limpida come una sorgente dell'acqua più pura, ha affrontato
i suoi stessi demoni in nome di un amore alla via col vento. E partorì sola, senza marito,
bianca, negli anni settanta, in una città chiusa e un po' xenofoba, in un quartiere alienato
dal resto del mondo, una bimba tutta nera e a quanto dicevano i medici, bellissima!
Quella bellezza durò per quasi tutta l'infanzia, credo, perché di quella bellezza una madre
estremamente premurosa mi aveva circondata e trasformata la mia differenza in pregio,
così come era riuscita a trasformare la cantina dove vivevamo nella casa dei miei sogni, e
le pareti nere di umidità in campi di fiori gialli.
Mancava però la controparte. Una controparte consistente, alta due metri e nella mia testa
di bambina grande come tutto il continente africano. Quella controparte era nominata da
tutti: amici, conoscenti e sconosciuti. Era ovunque.
C'era ogni volta che mi lavavo i capelli e che mia madre mi pettinava,
cercando di domare i ricci ribelli e farne tante treccine.
Il dolore che provavo era così fitto e duraturo da farmi stare imbronciata tutta la giornata.
Le detestavo le treccine! Vedevo solo i mille ricciolini residui, crespi, che fuoriuscivano
dall'acconciatura, senza pietà alcuna per il mio aspetto, ribellandosi a qualsiasi forma di
piegamento o sottomissione.
Forse volevano comunicarmi qualcosa sul mio carattere, ma
a otto anni non è facile comprendere le metafore della vita.
La controparte c'era ogni volta che qualcuno mi chiamava negra, che fosse per innocenza
o dispetto, io ne soffrivo, perché semplicemente avrebbe potuto usare il mio nome.
E, la controparte, c'era anche ogni volta che pronunciavo il mio nome, un po' angosciata,
consapevole che avrei dovuto ripeterlo e poi spiegarlo e poi giustificarlo, per l'ennesima
volta. “Eh? Ah! Come si scrive? Ma che vuol dire? Da dove viene?” Fino alla fatidica
domanda: “Da quanto tempo sei qui, nel nostro paese?”
Adesso, alla veneranda età di ... tot anni..., trovo in queste domande un certo gusto, uno
spunto per raccontare la mia storia e parlare di intrecci culturali e appartenenze indefinite
in un mondo local-globalizzato; ma quando hai 8, 12, 16 anni vuoi solo vivere in pace e
soprattutto vuoi essere il più possibile omologata a tutti gli altri.
La controparte era quindi ovunque, tranne che a casa per la cena, tranne che a prendermi
a scuola e sollevarmi fino al cielo per salire sulle sue spalle. Era ovunque, ma non lì, per il
bacio della buonanotte, per spiegarmi di quest'Africa, che ormai detestavo con l'anima, il
corpo e il cuore; la controparte era ovunque! Nelle foto alle pareti, e nelle parole amorevoli
di mia madre.. ma non nel suo letto. Questo crea una certa confusione perché.. tu sei
nera, ma tua madre è bianca, i tuoi amici sono bianchi e tuo padre, quell'unica controparte
nera, che avrebbe dovuto renderti partecipe del suo mondo, raccontandoti le sue radici e
facendoti sentire la forza della sua tradizione, è un illusione.
I bambini non comprendono le cose intricate degli adulti: la guerra, la poligamia, l'asilo
politico, no! I bambini sono un po' come un quadro di Kandinskij, se sei lì e ti posso vedere
e toccare esisti, se non sei lì non esisti. Mio padre non esisteva. Ed io ero bianca.

Ashai Lombardo Arop si è laureata al DAMS di Bologna. Ashai è danz-attrice, performer, insegnante di discipline coreutiche.
Ha fondato nel 2007 l'Associazione Culturale Danzemeticce, nata per la diffusione della danza e le arti performative come veicoli transculturali. La sua radice incerta, la sua natura meticcia la hanno indotta ad intraprendere un percorso di ricerca, che le ha fatto ritrovare una propria identità, attraverso l'espressione artistica. Ha partecipato a diversi spettacoli e festival nazionali e internazionali.

 

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