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Meg, yergù, yerèk

di Veronica Orfalian

“Anci?”
“Presente!”
“Benni?”
“Presente!”
“Piarulli?”
“Presente!”
“Orf... Orfaliani? No... Orfaaaliano?”
“Orfaliàn, maestra... presente!”

Questa era la scena che si ripeteva identica ad ogni nuovo ciclo scolastico. La voce del professore proseguiva a ritmo regolare nel corso dell’appello per poi subire un’imbarazzante battuta d’arresto al momento di pronunciare il mio cognome.

Da bambina temevo quel momento, perché questo cognome difficile da pronunciare mi metteva rapidamente al centro dell’attenzione della classe. Il seguito era anche peggio, dato che molti professori incuriositi domandavano: “Che cognome importante! Sei veneta?” Con una vocina timida rispondevo: “No... è un cognome armeno”, poi abbassavo leggermente la testa e con la coda dell’occhio mi guardavo attorno, scrutando velocemente tutti quegli sguardi vivaci posati su di me. “Cosa vuol dire che sei armena?” mi chiedevano allora alcuni compagni di classe.

Io non sapevo cosa dire se non: “La mia famiglia viene dall’Armenia!”
“Ah, e dov’è?” mi domandavano.
A quel punto non sapevo bene come rispondere. A casa non si parlava quasi mai dell’Armenia, si parlava invece di Tripoli e della Libia.
“Allora siete arabi!”, mi chiedevano sorpresi i miei amici.
“No, te l’ho detto, siamo armeni!”
“Ma l’Armenia non è la Libia!”
Era vero. Ma non sapevo cosa aggiungere.

Sapevo solamente di essere armena, che mio padre era nato a Tripoli dove assieme ai suoi fratelli aveva frequentato una scuola italiana, e che poi era dovuto scappare dalla Libia a causa di un colpo di stato organizzato da un certo Gheddafi. Per il resto, essendo nata in Italia mi consideravo italiana. Quella questione dell’Armenia riguardava mio padre e i miei zii, non me. A ben guardare essere armena non mi distingueva troppo dagli altri.

Eppure il mio cognome conservava la memoria di un passato.

Le domeniche a casa della nonna, prima di andare a tavola, ognuno faceva qualcosa. Mio padre leggeva il giornale, lo zio faceva giardinaggio, mia nonna cucinava con l’aiuto della zia, mentre io ogni tanto guardavo la
televisione assieme a mio nonno Dikran. Lui, che non parlava bene l’italiano, mi diceva sempre le stesse poche parole. Indicava le mie scarpe e con fare scherzoso diceva: “Questo, mio è!” Al ché io sorridendo rispondevo: “No! Mio è!” Inconsapevolmente, nel rispondergli usavo il suo stesso modo di parlare. Poi, stanca della televisione, scendevo al piano di sotto. La tavola era apparecchiata e assaggiavo furtivamente tutto quello che potevo, intingevo un pezzetto di pane nel hommus, e con un cucchiaino mangiucchiavo un po' di taboulé.

Quando tutto era finalmente pronto, toccava a me avvisare gli altri. Allora felice saltellavo per casa dicendo:
“Gheraghùr badrast-e! Che in armeno vuol dire «il pranzo è pronto». Chiamavo tutti risalendo le scale verso il salotto dove trovavo mio nonno seduto sulla sua poltrona: “Nonno, gheragùr badrast-e!” Allora si alzava, mi
prendeva per mano e scendeva assieme a me gli scalini aiutandomi a contarli in armeno. “Meg, yergù, yerèk...” Era il nostro rito, che si ripeteva puntualmente ogni domenica.

In realtà io sapevo contare in armeno ormai da molto tempo, ma mi piaceva quel gioco domenicale. Io e il nonno, mano nella mano, iniziavamo a contare a voce bassa e man mano che scendevamo, alzavamo il tono delle nostre voci fino all’ultimo scalino sul quale di solito io saltavo gridando daaaas! Cioè «dieci»! Nel frattempo la tavola si era arricchita di altre pietanze buonissime come il dolmà - che era il mio piatto preferito - e il cuscus, mentre il dolce paklavà attendeva sulla credenza.

“Che buoni questi piatti armeni!” avevo detto una domenica. “Non sono solo piatti armeni!”, aveva risposto mio padre, “qualcuno viene dalla Libia”. Quella spiegazione mi aveva riportata alle domande dei miei compagni di
classe.

Sulla mia tavola si potevano mangiare indistintamente pietanze armene, pietanze arabe e italiane. Eppure il mio cognome era “solo” armeno. Dovevo assolutamente seguire il tortuoso tracciato identitario che
avvolgeva in maniera così nebulosa la storia della mia famiglia,comprendere il significato e accettare, forse una volta per tutte, il mio cognome.

Così un giorno avevo chiesto a mio padre: “Perché noi ci chiamiamo Orfalian?” Mio padre si era preso del tempo per trovare le parole più adatte per una bambina di dieci anni e iniziò spiegandomi che nel 1915 suo nonno era scappato dalla sua città natale Urfa arrivando fortunosamente in Palestina. Lì, le autorità locali lo avevano registrato con l’appellativo Ourfalli, che in arabo significa «che viene da Urfa».
Si perdeva così per sempre il cognome originario della famiglia. Ma non era finita qui. Molti anni dopo, mio nonno Dikran aveva deciso di aggiungere al nuovo cognome il suffisso -ian, per renderlo inequivocabilmente armeno. Non voleva dimenticare le sue origini.

Quando mio nonno morì, ripensai a ciò che aveva fatto e capii che nel mio cognome era conservata la storia della mia famiglia. Quello «ian» che mio nonno aveva voluto in coda al nome mi riportava alla sua volontà di
continuare a ricordare. Qualche tempo dopo, una domenica, sedevo sola davanti al televisore. Chiamai mio padre, distogliendolo dalla sua lettura. Lo presi dolcemente per mano e gli chiesi: “Scendiamo le scale contandole in armeno?” Sorridendomi raccolse il mio invito e insieme cominciammo a contare pian piano: “Meg, yergù, yerèk...”.

 

Nata a Roma nel 1984 da una famiglia di origini armene, nel 2011 si è laureata in Letteratura Comparata presso
l’Università La Sapienza di Roma. Nel 2010 ha vinto il premio SlowFood Terra Madre, del concorso letterario “Lingua Madre” del Salone Internazionale del Libro di Torino, con il racconto Ricordi alla Menta. Nel 2009 è stato pubblicato un suo saggio intitolato La Storia nella Scrittura diasporica edito da Bulzoni. Collabora con la rivista online “Kumà Transculturazione” diretta da Armando Gnisci. 

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