Il sorriso dell’agnello (1983)
Romanzo affidato alle voci di quattro protagonisti che si alternano nel racconto, restituendoci un ritratto lucido e vivido dei problemi di Israele e della questione palestinese.
A cura di Anita Raja
Prima di avviare qualsiasi discorso sulla letteratura israeliana è necessario fare un po’ di chiarezza da un punto di vista terminologico.
Useremo qui il termine “letteratura israeliana” per intendere la letteratura in ebraico scritta da autori nati in terra di Israele o che vivono nello stato di Israele (fondato nel 1948), perché il termine “letteratura ebraica” ci pare riduttivo e fuorviante: lo si usa infatti sia per la letteratura di autori di religione ebraica che vivono fuori di Israele (soprattutto negli USA e in Europa, e dunque scritta in inglese, francese, tedesco ecc.) che per la letteratura scritta in yiddish (la lingua-dialetto degli ebrei dell’Europa Centrale, derivata dal tedesco e con commistioni di polacco, ebraico, ecc.: la lingua di grandi autori come Singer, ma anche la “lingua dell’esilio”).
In questa opera di chiarificazione terminologica ci può aiutare un saggio di uno dei maggiori scrittori israeliani, A. B. Yehoshua: Ebreo, israeliano, sionista: concetti da precisare (in ‘Elogio della normalità. Saggi sulla Diaspora e Israele’, Giuntina, Firenze 1991) che ridefinisce alcuni concetti di base legati all’identità ebraica.
Per Yehoshua ‘ebreo’ è ‘chi si identifica come tale’, visto che nella definizione religiosa classica non c’è nessuna indicazione di patria o di lingua né un qualche elemento di appartenenza alla comunità.
Gli ebrei non sono una razza, e non si sono mai considerati tali, ma un popolo. Essere ebreo è una questione di scelta.
‘Ebreo’ è chi è legato a una fede religiosa e all’esistenza ebraica nella diaspora, mentre “israeliano” è chi vive in un’esistenza totale ebraica, i cui segni distintivi sono la terra, la lingua e un contesto sociale autonomo, insomma chi è radicato in un contesto geografico.
E’ israeliano, dunque, per Yehoshua, chi ‘possiede una carta d’identità israeliana’.
Con l’espressione ‘letteratura israeliana’ intendiamo quindi una letteratura il cui sfondo naturale sono i paesaggi e la terra di Israele, una letteratura che ha come orizzonte la geografia di Israele, anche nei casi – rari – di ambientazione in altri paesi.
Questa geografia, pur di dimensioni ridotte, offre una grandissima varietà di sfondi: dall’ambiente rurale a quello urbano e metropolitano, dal deserto al mare, dal kibbutz alle università.
L’accettazione di questa geografia è patrimonio di tutti gli scrittori nati o vissuti in Israele, dalla generazione di mezzo dei Grossman, Oz, Yehoshua a quella dei più giovani, come Keret o Castel-Bloom.
La letteratura israeliana porta inscritto nel proprio patrimonio genetico alcuni temi: l’esperienza, diretta o indiretta, dell’olocausto, lo sradicamento e la parallela ricerca di radici, la rielaborazione del passato e la conquista di una identità, il rapporto con l’altro.
Alcune di queste tematiche ricorrono in modo costante, rispecchiate e riassunte dal conflitto israelo-palestinese che costituisce lo sfondo di molta letteratura israeliana: il rapporto tra cultura (europea) d’origine e cultura (araba) di arrivo, l’incontro-scontro con l’Oriente.
In particolare, il rapporto tra Oriente e Occidente è una chiave di fondamentale importanza per capire la letteratura israeliana, i cui riferimenti culturali sono soprattutto occidentali, ma si incontrano e si scontrano poi, inevitabilmente, con l’ Oriente persistente, inaddomesticabile, che rappresenta l’Altro da sé, un Altro vicino e lontano, come gli arabi palestinesi (basti pensare a un testo come L’amante di A. Yehoshua).
Da questo deriva spesso una consapevolezza dolorosa e problematica della propria identità: un senso di sradicamento e di estraneità rispetto a una Terra amata soprattutto da lontano (Kenaz, Shabtai), o l’esigenza di riandare indietro con la memoria per ricostruire un passato recente e meno recente, per ridefinire la propria identità (per citare i due casi più noti: Il signor Mani di A. B. Yehoshua e Storia di amore e di tenebra di Amos Oz), anche in rapporto con l’ebraismo come tradizione religiosa e culturale, con la cultura ebraica del passato, che era in gran parte religiosa e si è sviluppata nelle terre d’esilio.
Nella generazione più giovane, il radicamento è invece un fatto acquisito, non ci si interroga più sulla propria identità nè si ripercorre il passato in cerca di appigli e conferme: ne risulta una letteratura più astratta, sintetica, spesso costituita da racconti brevi, che ha con la realtà un approccio descrittivo e (solo apparentemente) più di superficie.
Un uomo fuggito da Israele per rifarsi una vita in America ritorna in patria per sciogliere definitivamente ogni legame con la moglie.
La storia dell’impossibile separazione raccontata da tanti “io” diversi, dai punti di vista - tutti parziali e tutti con le loro ragioni - dei vari personaggi. La crisi di una famiglia come metafora dell’identità ebraica, divisa tra diaspora e costruzione di uno stato nazionale.
Il racconto in prima persona di Hannah, una studentessa sposata a un geologo, Michael, da cui si è allontanata perchè ha perso la capacità di amare e di vivere.
Una storia di sentimenti e passioni inconfessabili: un giovane medico torna dall’India innamorato di una donna molto più grande di lui.
(Traduzione di Arno Baehr)
Parigi, gelido borgo sperduto fra oscure contrade. Siamo nell'estate del 999, nel cuore di un continente selvaggio e in fermento per l'approssimarsi del fatidico Anno Mille. Il ricco mercante ebreo Ben-Atar, in compagnia delle due mogli, è in viaggio per raggiungere il nipote Raphael Abulafia, ex socio d'affari, e la sua nuova moglie, una askhenazita che disapprova la bigamia del mercante maghrebino.
Una donna scrive all’ex marito lontano per chiedere aiuto per sè e per il loro figlio, un ragazzo difficile e ribelle.
Si avvia così una corrispondenza che apre la “scatola nera” dei ricordi e dei risentimenti, delle ragioni e dei silenzi che hanno portato alla catastrofe dei personaggi.