Il mio posto è ovunque


Bibliografia 2003 a cura di Antonella Capasso.
Hanno collaborato: Valeria Bersacchi, Anna Maria Coszach, Paola Montecorboli.
Consulente: Isabella Camera d’Afflitto.
Bibliografia 2007 a cura di Federica Quattrone.
La bibliografia che proponiamo non vuole offrire un quadro esauriente della narrativa araba contemporanea ma suggerire un percorso di lettura attraverso una scelta di autori, tradotti e pubblicati in Italia, che riteniamo interessanti e capaci di rappresentare una realtà così complessa e variegata.
La nostra intenzione è quella di offrire uno strumento agile di consultazione per chi si avvicina per la prima volta alla lettura di narratori arabi o per chi voglia approfondire la propria conoscenza anche attraverso la lettura di autori meno noti.
Oggi, infatti, dopo molti anni di disinteresse, è possibile anche da noi accostarsi alla produzione letteraria di lingua araba grazie a un lavoro intenso, spesso appassionato, di studiosi e traduttori italiani e alle interessanti iniziative editoriali di piccole case editrici che hanno investito molto affinché tanti scrittori, famosi nei loro paesi d’origine, ma del tutto sconosciuti in Occidente, venissero diffusi anche in Italia.
A questa varietà nel paesaggio geografico corrisponde una ricchezza linguistica che rende difficile schematizzare in maniera semplice la produzione letteraria araba.
Come spiega Isabella Camera d’Afflitto “…nel mondo arabo esiste il problema della diglossia, ossia di una lingua scritta che differisce da quella parlata, che a sua volta si distingue in una lingua standard, usata nei discorsi ufficiali o dai mass media e in una lingua dialettale che varia da paese a paese, da regione a regione, da città a città. Semplificando al massimo si può dire che la lingua classica, che è anche la lingua del Corano, e quella standard uniscono tutti gli arabi, mentre i dialetti regionali sono parlati e comprensibili per lo più esclusivamente dalla gente del luogo”.
Nell’ospedale militare di Val de Gross, a Parigi, è ricoverata Taji al-Mulik, una donna di novant’anni con una vita tumultuosa alle spalle. Nonostante si sia stabilita a Parigi da tempo, la sua mente è sempre rivolta alla sua vita passata trascorsa a Baghdad, un periodo di cui conserva gelosamente i ricordi.
Il viaggio di Mariam è una lunga lettera scritta da Sara, una donna cristiana originaria di Maharda, in Siria, alla figlia Mariam, ancora troppo piccola per comprendere l’atrocità di una guerra che sconvolgerà per sempre la sua vita e quella della sua famiglia.
La narrazione prende avvio dalle prime manifestazioni che, nel marzo 2012, attraversano Raqqa, città in cui Sara si è stabilita dopo il matrimonio con Hashem. La violenza delle proteste, duramente represse dalle forze del regime, è ben presto sostituita da una nuova minaccia: quella dello Stato Islamico, che farà di Raqqa la propria capitale.
Sono sessantenni panciuti e stanchi quelli che sguazzano nella piscina dell’esclusivo club Maadi, per lo più militari in pensione, generali e alti gradi dell’esercito egiziano. Fra loro c’è il capitano Ni’mat, ex pilota di caccia che ha combattuto nella guerra dei Sei Giorni, quella del 1967 contro Israele che si è conclusa con una pesante sconfitta dell’Egitto e, quindi, sua. A un certo punto il club viene invaso dai giovani, i ragazzi della locale squadra di nuoto venuti ad allenarsi, e i vecchi sono costretti loro malgrado a lasciare la piscina e rifugiarsi al tavolo sotto il pergolato, dove proseguono le loro interminabili chiacchiere. Solo il capitano Ni’mat resta in disparte ad ammirare i corpi lisci e flessuosi dei giovani che guizzano agili nell’acqua azzurra. Poi quell’osservazione diventa contemplazione e il capitano Ni’mat è il primo a sorprendersi del rapimento estatico da cui è travolto e al quale non sa ancora dare un nome.
Sali su un aereo portandoti dietro solo una borsa in cui sono nascoste le ceneri di tuo padre, alla volta di un paese sconosciuto che dovrebbe essere il tuo ma non lo sarà mai. Non proprio una passeggiata. Eppure leggiamo col sorriso, perché tutto ciò che Randa Jarrar tocca sembra assumere una levità che ricorda la protagonista del primo di questi racconti, Qamar, di giorno in equilibrio su una fune senza protezioni al circo di Alessandria e la notte sul tetto di un palazzo a guardare la luna.
Una mattina di gennaio del 1907 i due amici Hanna e Zakariyya fanno ritorno al villaggio di Hosh Hanna, vicino ad Aleppo, dopo aver trascorso la notte a divertirsi e gozzovigliare. Le loro case, la loro famiglia, tutto è stato spazzato via da un’alluvione, e ad aspettarli non trovano che il silenzio.